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Vuoi vincere in regata? Imbarca un… micrometeorologo!

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micrometeorologo
Il Mediterraneo è da sempre uno dei campi di regata tra i più complessi ed affascinanti del panorama internazionale.
E’ evidente che quando un velista gioca in casa il primo pensiero è che possa essere avvantaggiato dal conoscere gli scenari ambientali del campo di regata. Come, realisticamente, ovviare a questo svantaggio per chi proviene da qualsiasi altra parte del globo? Lo abbiamo chiesto a Riccardo Ravagnan, Meteo Forecast & Services Manager di Meteomed. (foto di Andrea Carloni)

Riccardo Ravagnan, Meteo Forecast & Services Manager
di Meteomed

MICROMETEOROLOGO: CHI ERA COSTUI?
“I modelli meteorologici previsionali sono oggi sempre più performanti ma c’è dell’altro”, esordisce Ravagnan. “La consulenza di un esperto micrometeorologo è quel fattore che permette di conoscere i fenomeni fisici che si verificano alla scala locale che un modello matematico difficilmente può intravedere. Perché scegliere la destra o la sinistra del campo di regata? Possiamo fidarci della previsione di un vento da 280° che passa a 230°? In questa condizione è così scontato che valga la pena prediligere la sinistra del campo di regata?”. Sono molte le domande ma la risposta è solo una: avere a bordo un esperto di consulenza strategica o poter beneficiare di una consulenza da remoto è la marcia che può addirittura permettere di superare il velista esperto locale. “Questo lo possiamo dimostrare”, prosegue Ravagnan, “perché noi all’Italiano e al Mondiale ORC nel Golfo di Trieste c’eravamo. Il nostro responsabile Meteomed era a bordo di Sheraa, lo Swan 42 di Maurizio Poser (argento all’Italiano e bronzo al Mondiale)”.

Le carte sinottiche centrate sull’area di interesse (in questo caso il Golfo di Trieste) permettono di analizzare l’andamento delle condizioni del vento (direzione e intensità) e del meteo (pressione) per quello specifico punto.

IN PRINCIPIO FURONO LE CARTE SINOTTICHE
“Tutto parte dalle tabelle sinottiche, centrate sull’area di regata: si analizza l’andamento previsto dal modello per quello specifico punto. In seguito si studia la cartografia, non solo l’andamento reale del vento in direzione ed intensità ma anche la distribuzione della pressione. E’ fondamentale posizionare il campo di regata nel giusto contesto barico, ci si può aiutare con un barometro a bordo. Questa sequenza aiuta a orientare correttamente la previsione, alla quale si deve aggiungere la componente umana. Il consulente specializzato in regate deve saper leggere un’immagine satellitare, osservare la nuvolosità attorno all’area di regata, avere chiara la differenza termica tra la terra ed il mare. Cosa dà il risultato finale? La sensibilità del consulente, quella componente non scalabile che mixa l’esperienza nella lettura dei dati e la capacità di interpretarli”.

Incrociandole con la cartografia, le carte sinottiche risultano ancora più efficaci

PREVEDERE SIGNIFICA OTTIMIZZARE
Secondo Ravagnan, “un esperto locale ragiona per esperienza e rimane confinato in schemi piuttosto rigidi, un consulente dev’essere abbastanza competente nella materia scientifica per orientare costantemente le sue analisi e interpretare continuamente il campo di studio senza essere influenzato dall’andamento apparentemente ripetitivo di una certa località. Servirsi di un consulente esperto di analisi ambientale per la strategia di regata, a bordo o in remoto, è utile non solo per le scelte di navigazione, quale campo prediligere, ma per scegliere le vele con le quali regatare, quali portare a bordo, quali tenere pronte anticipando un fenomeno ed i propri avversari. Avere un micrometeorologo significa possedere una marcia in più rispetto all’avversario che crede di poter fare affidamento solo sulla propria esperienza di regata, senza considerare che l’analisi ambientale è una materia tanto complicata quanto la produzione di una vela”. www.meteomed.it

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Questo articolo è tratto dal numero del Giornale della Vela di Agosto, in edicola e in digitale!

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Il valore dell’esperienza: intervista a Emanuele Cecchini

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cecchini“Quando lasciai Harken nel 2007, dissi a Peter (Harken, ndr) che avrei voluto lanciarmi in un master. Ora Peter mi ha chiamato dicendomi che secondo lui il master era durato abbastanza a lungo“. Così scherza Emanuele Cecchini, nuovo direttore commerciale di Harken Italy, sui “retroscena” del suo ritorno. Cresciuto a Roma ma varesino di adozione, classe 1964, Cecchini ha un lungo palmares di successi velici. Perché ci vuole anche un manager velista per portare avanti (insieme al direttore generale Andrea Merello) un’azienda creata da velisti (Olaf e Peter Harken) per i velisti.

LA NOSTRA INTERVISTA A EMANUELE CECCHINI

Emanuele, quando è iniziato tutto?
“Vado in barca da quando ho cinque anni, dato che faccio parte di una famiglia di velisti. Ho iniziato sul lago di Bracciano, poi mi sono spostato verso Cala Galera, che negli anni ’80 era un vero e proprio paradiso della vela. Ho regatato su Three Quarter Tonner, Half Tonner, Swan, monotipi quali Mumm 30, 36 e Melges 32. Ho preso parte a diverse Admiral’s Cup, Sardinia Cup, Mondiali Maxi e ai Mondiali 50′, che tra l’85 e il ’95 erano la vera anticamera della Coppa America. Sono stato a bordo di molti Moro di Venezia Maxi, ma le barche a cui ho legato la mia attività da velista sono soprattutto i Mandrake di Giorgio Carriero, con cui, tra l’altro, ho vinto anche alcune Sardinia Cup e molto altro”.

La tua nuova avventura in Harken: che progetti avete e quali sono i prodotti su cui punterete maggiormente nel futuro prossimo?
“La mia nuova avventura in Harken Italy, in realtà, è un ritorno. Ho iniziato la mia carriera “commerciale” in Harken nel 1996 per proseguire poi come direttore commerciale e Marketing di Cantieri del Pardo dal 2007 e, nella stessa posizione, in Adriasail Custom Yachts dal 2008 e Eligio Re Fraschini dal 2011. Adesso, sono tornato. Se il mondo delle regate è nel dna dell’azienda, va detto che stiamo implementando ulteriormente anche il lato “crocieristico”, con soluzioni dedicate a chi va in barca per piacere. Facciamo ricerca per sviluppare prodotti che garantiscano la maggior sicurezza e semplicità d’uso, sia in regata che crociera: se entrate nei laboratori dell’azienda resterete sorpresi nel vedere la quantità (e la qualità) delle soluzioni rivolte ai crocieristi al vaglio dei tecnici.

Il Flatwinder di Harken

Qualche tempo fa abbiamo sviluppato l’ESS il sistema di settaggio automatico delle vele, in collaborazione con il gruppo BJ. Ancora più recente è il Flatwinder, ovvero un sistema di regolazione elettrica automatica (tramite un pulsante) del carrello della randa. Abbiamo anche una nuova serie di bozzelli dedicati alla crociera che sarà lanciata il prossimo inverno”.

Ce’è dell’altro?
“Va aggiunto che abbiamo aperto un nuovo settore di business, quello che noi definiamo ‘industrial’, con sistemi per le linee vite degli edifici e attrezzature d’avanguardia per i lavori in quota: è un settore in crescita”.

L’Air Winch

Qual è il prodotto che ha stupito maggiormente Emanuele Cecchini tra gli ultimi sviluppati da Harken?
“Quando sono tornato in azienda sono rimasto stupito dagli Airwinch (il rivoluzionario ‘winch con il buco’ usato anche in Coppa America e sviluppato e prodotto nella sede di Harken Italy), che secondo me rappresentano lo stato dell’arte nel panorama dei verricelli: un prodotto futuristico ma futuribile, che potrebbe essere declinato nel mondo della crociera. D’altronde nessuno credeva nel rollafiocco o nel sistema Battcar alla fine degli anni ’70, ora è impensabile non montarli”.

In che modo metterai al servizio dell’azienda la tua esperienza velica?
“Continuando a fare come ho sempre fatto: il modo più indicato per farsi venire delle idee, è navigare. L’esperienza diretta è la miglior musa ispiratrice: navigando in crociera o in regata ti vengono in mente soluzioni che in futuro potrebbero tramutarsi in nuovi prodotti. Ad esempio qualche giorno fa ho pensato che si potrebbe… top secret. Per ora”.

Sponsorizzazioni? Aiuterete qualche velista o navigatore?
“Harken non ha mai messo in pratica sponsorizzazioni specifiche, la nostra logica è… o tutti o nessuno. Quello che abbiamo fatto in passato, e che continueremo a fare, è aiutare il ‘vivaio’ supportando i velisti giovani, nel mondo delle derive”.

Qual è il tuo velista mito?
“Non ho un velista mito vero e proprio, ho avuto la fortuna di navigare con i più forti del mondo e ognuno mi ha insegnato qualcosa. Ho avuto modo di apprezzare i pregi (e perché no, conoscere anche i difetti) di ciascuno di loro. Ma visto che mi chiedi di fare due nomi (senza cognomi): Gianni, che mi ha insegnato ad andare in crociera (e fidatevi, non è per nulla semplice) e Giorgio, a cui devo il metodo nella gestione degli aspetti tecnici riguardanti una barca a vela da regata”.

L’Helisara VI del maestro Herbert Von Karajan

La tua barca mitica?
“Ho navigato tanto, per cui è difficile. Sono legatissimo alle barche della serie Mandrake, ma una barca che mi ha davvero tolto il fiato quando ci sono salito sopra fu il maxi Helisara VI del maestro Herbert Von Karajan: interni incredibili, soluzioni pazzesche per quei tempi. Va detto che amo molto le barche che ‘osano’, sia in termini di evoluzione tecnologica che progettuale: così come sono rimasto impressionato dai nuovi catamarani di Coppa America o dai bolidi che presero parte a “The Race: No Limit Around The World” (il giro del mondo a vela con equipaggio, senza scali e senza assistenza su barche non sono sottomesse ad alcun limite di dimensione), ho avuto modo di apprezzare barche “avanti” come gli Open 60 (quelle che partecipano al Vendée Globe, vere e proprio Formula Uno degli oceani)”.

Dato che, come ci hai raccontato, vai spesso in crociera, quali sono i tuoi luoghi del cuore?
“Sicuramente la Sicilia e la Sardegna. I colori del mare che sono in grado di offrirti, soprattutto fuori dalla stagione turistica, non li trovi da nessun’altra parte al mondo. Né ai Caraibi, né in Pacifico. Io amo navigarci soprattutto in maggio o giugno e a settembre…”.

Cosa ne pensi della nautica in Italia?
“Mentre ti sto parlando sono negli Stati Uniti, a New York. Qualche giorno fa ho visto un tripudio di barche a vela, piccole e grandi, a Hyannis Port, in Massachussets. Stesso spettacolo a Newport. Ho visto porti attrezzati, banchine, semplici moli in legno affollati di barche. In Italia non è così. Possibile che un paese circondato dal mare non riesca a dotarsi di un sistema turistico-nautico competitivo? Perché non abbiamo un ministero del mare? Perché non abbiamo ancora capito che il turismo nautico potrebbe essere una opportunità per tutti ? Dobbiamo rendere il nostro Mediterraneo appetibile agli stranieri, ma dobbiamo farlo in sinergia, con un’organizzazione ragionata e non con sporadiche iniziative unilaterali. L’esempio sono le Baleari, diventate un punto di riferimento per i nordeuropei, che vi tengono la barca”.

E.R.

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Sei consigli per vincere il nostro contest Instagram

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Abbiamo appena lanciato il
contest Instagram “#estategdv2017” che già arrivano le prime foto! Bravi! Invitandovi a continuare a fotografare mentre siete in barca con i vostri tablet, smartphone, action-cam e chi più ne ha più ne metta (QUI IL REGOLAMENTO DEL CONCORSO), vi ricordiamo che le foto dovranno essere accompagnate dall’hashtag #estategdv2017 e dal tag @giornaledellavela per poter essere prese in considerazione.

Intanto, ecco per voi sei consigli per scattare foto perfette per Instagram (e vincere i nostri premi).

1 – Fate sempre attenzione a cosa c’è dietro al soggetto che fotografate: l’occhio umano coglie tutto ciò che circonda il soggetto principale, quindi controllate che sullo sfondo non ci siano elementi di disturbo. In caso di sfondo trafficato (porti, cantieri, rade), è preferibile sfocarlo.

2 – Volete ottenere uno scatto più “romantico”? Scattate la mattina presto o il tardo pomeriggio / sera, quando la luce è più soffusa…

3 – Se siete alle prime armi, impostate il vostro smartphone/macchina fotografica in modalità scatto multiplo: avrete così maggiori possibilità di cogliere l’attimo di “spontaneità” per dare ‘sale’ alla vostra foto

4 – Altra accortezza che rende un’immagine di qualità riguarda le linee degli orizzonti e del mare, ci sono molte applicazioni che permettono di implementare questa veloce e semplice post-produzione molto utile per fotografie paesaggistiche. Evitate l’effetto “svuotamento!”

5 – Hashtag: dovete usare quelli giusti, Instagram, ne consente fino a un massimo di 30. Che non siano troppo generici (#sea, #love, #happiness), perché attirano spam. Non cercate su Google i 30 hashtag più visualizzati, ma andate a vedere quelli utilizzati tra gli “influencer” e valutate se tra quelli che loro usano ci sono parole chiave che possono funzionare per la vostra foto.

6 – Spesso dimentichiamo che Instagram è un social network: dovete essere social. “Coccolate” i vostri seguaci rispondendo ai messaggi, e non dimenticate di mettere il famoso “cuoricino” anche alle foto che vi piacciono scorrendo la bacheca. Anche ai commenti meno positivi si deve rispondere, se la critica è costruttiva vi aiuterà a scattare una foto migliore domani.

SCOPRI TUTTE LE NEWS RELATIVE AL CONTEST #ESTATEGDV2017

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America, lo schooner che diede inizio al mondo delle regate moderne

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Vi stiamo presentando, in ordine di tempo, quelle che secondo noi sono le 30 barche mitiche della storia della vela. Hanno fatto imprese, riuscite e non, hanno segnato la storia dello yachting moderno, hanno stupito perché hanno osato anticipare i tempi. Non le troverete mai esposte in un museo reale, noi ve le mostriamo, vi raccontiamo le loro incredibili storie e vi invitiamo a votare online la vostra preferita.

VOTA LA TUA PREFERITA QUI!

Iniziamo il nostro viaggio con la goletta “America”. 

LA GOLETTA DA CUI EBBE INIZIO… TUTTO

Con questa goletta di 29 metri (più cinque di bompresso), iniziò la saga della regata più famosa del mondo: progettata da George Steers, strappò agli inglesi nel 1851 la Coppa delle Cento Ghinee (che da allora si chiamerà Coppa America) attorno all’Isola di Wight. I suoi segreti? Una prua affilata, il bordo libero basso e il piano velico semplice, privo di controrande. Il baglio massimo era di 6,85 metri. La nave, costruita in vari legni tra cui cedro venne varata nel 1851, nel cantiere William H. Brown: era lunga in totale 30,86 metri (27,38 al galleggiamento), pescava 3,33 metri e presentava un piano velico di 492 mq.

DALLA COPPA ALLA GUERRA
L’imbarcazione venne ribattezzata Camilla nel 1856, poi come bottino di guerra Memphis nel 1860 dagli Stati Confederati d’America, e alla fine delle vicende belliche della guerra civile americana fu autoaffondata a Jacksonville nel 1862. Ripescata e riattata, immessa in servizio con la US Navy riprendendo il nome di America, fu armata con 3 cannoni Dahlgren di bronzo e partecipò al blocco dei porti sudisti. Rimase in servizio fino al 1873, quando venne radiata e venduta ad un ex generale e uomo politico, Benjamin Franklin Butler, che la tenne in condizioni di esercizio e la fece partecipare a diverse gare. Dopo la sua morte passò diverse mani fino a che venne restaurata nel 1921 dallo America Restoration Fund, che la donò all’Accademia navale di Annapolis, dove non venne manutenuta; il 29 marzo 1942 la struttura dove era ricoverata crollò sotto il peso di una nevicata finendo di danneggiarla e i rottami della struttura e della America vennero bruciati nel 1945.

Forse non tutti sanno che esiste una fedele riproduzione della goletta, costruita nel 1967, che noi abbiamo avuto modo di visitare nel dettaglio:

 

goletta-america-in-navigazioneSiamo saliti a bordo della goletta America, l’unica riproduzione fedele in circolazione del mitico schooner che vinse la Coppa delle Cento Ghinee nel 1851. Pur trattandosi di una copia varata nel 1967 (qui trovate la storia della barca), America ha acquisito un altissimo valore storico perché l’originale schooner andò distrutto mentre era in rimessaggio in un capannone verso la fine degli anni ’40. Dalla demolizione sono stati salvati alcuni pezzi: uno di questi, pregiatissimo, è a bordo di America e potrete toccarlo con mano. Si tratta della stufa originale che riscaldava il salone della barca vincitritice di quella che poi sarebbe diventata la Coppa America. Troverete anche altri pezzi originali, tra cui alcune lampade.

GUARDA L’INTERVISTA AL COMANDANTE DI AMERICA

UNA BARCA NATA PER NAVIGARE
Per la costruzione di America (che ora appartiene alla fondazione Schooner America, ed è in Italia nonostante gli americani abbiano provato ad acquistarla durante l’ultima Coppa America) è stato fatto largo utilizzo di teak e mogano americano (impossibile trovare nel 1967 la radica di rosa con cui vennero realizzati gran parte degli interni dell’originale). Il salone è l’unico “lusso” in una barca di 38,90 metri nata per navigare: la cabina armatoriale è spartana, con un piccolo matrimoniale che non fatichereste a trovare a bordo di un 35 piedi odierno. C’è una sola cabina ospiti con letto doppio, poi spazio all’equipaggio nell’area prodiera, con cucina, area femminile e area maschile. Affascinante la sala macchine, con il motore originale diesel a due tempi del 1967.

A BORDO DI AMERICA – GALLERY









SCHEDA TECNICA
Lunghezza fuori tutto 38,90 m
Lunghezza in coperta 31,90 m
Lunghezza al galleggiamento 27,60 m
Baglio max 7,00 m
Pescaggio 3,60 m

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IN CROCIERA IN SARDEGNA? IL MEGLIO DELL’ARCIPELAGO DELLA MADDALENA

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Non esiste in tutto il mondo un arcipelago come quello de La Maddalena: due gruppi di isole diversi tra loro per nazionalità (francese e italiana) ma non per bellezza selvaggia e delicata. Protetto da una severa riserva naturale, questo arcipelago oltre alla più grande isola madre, Caprera e Santo Stefano, comprende anche un piccolo numero di isole minori: Budelli, Razzoli, Santa Maria, Spargi, Lavezzi, Cavallo. Senza dimenticare che a queste si aggiungono altri vari isolotti, che spesso sono solo grandi scogli, come quello di Barrettini (che farà da boa alla TAG Heuer Vela Cup Summer – Trofeo Formenton), Mortorio, Soffi, Nibani. Con l’aiuto degli esperti di Navily vi consigliamo i migliori porti, le baie imperdibili e le calette da raggiungere per farvi almeno un bagno.
PORTI
Abbiamo selezionato tre porti nelle vicinanze dell’Arcipelago dove potete trovare posto e prenotare con l’App Navily. Se cercate un posto proprio sull’Isola della Maddalena, lo scalo ideale per visitare l’arcipelago è Porto Massimo, 120 posti, pescaggio massimo 5 metri, lunghezza massima 60 (41°15’30 N – 09°25’, 39E), nell’insenatura di Porto Lungo, sulla costa E dell’isola. Se decidete di fermarvi qui non fatevi mancare un bagno nella bellissima spiaggia di Marginetto a pochi minuti dal porto. I prezzi in alta stagione per una notte per un 12 metri si aggirano intorno ai 20o euro. Un altro marina che vi consigliamo per una sosta nei pressi di Baja Sardinia è il Marina di Cala Bitta, 200 posti, pescaggio massimo 2,5 metri, lunghezza massima 27 metri (41°7’33’’ – 9°28’12’’ E) dove il costo per una notte si dimezza calando a circa 100 euro. Se avete con voi dei bambini potete portarli a fare un giro all’Aquadream. E come ultimo porto vi consigliamo quello di Porto Rotondo dove è pressoché impossibile non trovare ormeggio con i suoi 653 posti barca, pescaggio massimo 5 metri, lunghezza massima 11o metri (41°1’48’’ – 9°32’30’’E). A pochi minuti dal porto c’è la bellissima chiesa di San Lorenzo che vi consigliamo di andare a visitare. I prezzi non sono però molto economici: una notte, sempre per un 12 metri,  vi costerà intorno ai 250 euro.

BAIE, ANCORAGGI E SPIAGGE
Grazie al fatto che tutti gli isolotti presentano una geografia frastagliata, si aprono una serie innumerevole di baie e ancoraggi nei quali ci si può fermare, facendo sempre attenzione a rispettare le regole della corretta navigazione. Ancoraggi come ad esempio quello di Cala Villamarina (41°11’28N – 09°24’26E), sull’isola di Santo Stefano proprio di fronte e Porto Rafael protetta da vento e onde provenienti da Ovest, Nord e Est. Il fondale è sabbioso e si può accedere facilmente alla spiaggia grazie a un pontile. Un piccolo ancoraggio selvaggio molto piacevole e ben riparato. Una vera perla è poi Cala Corsara (41°13’48N – 9°20’36E) sull’isolotto di Spargi (una delle “boe” della VELA Cup è la meda proprio di fronte a questa caletta)e ben protetta da O, NO, N e NE. Il fondale è sempre sabbioso e si può approfittare di una bella spiaggia. L’unico neo di questa Cala è che è molto frequentata di giorno. Spostandoci poi sull’Isola della Maddalena vi consigliamo di andare a fare un bagno a Cala Spalmatore (41°14’57N – 9°24’49E) nei pressi di Punta Galera e protetta da vento e mare da Nord Ovest e Sud. Il fondale è un misto di sabbia e alghe, e con il tender si può raggiungere facilmente un pontile (dove si può fare anche acqua) per arrivare alla spiaggia. L’acqua è davvero uno spettacolo, verde smeraldo. Molto frequentata di giorno, ma tranquilla di notte. L’ultimo consiglio che vogliamo darvi riguarda Cala Coticcio (41°12’54N – 9°28’59E) sull’isola di Caprera e protetta da O, NO, N e NE. Fondale sabbioso (lontano dagli scogli), questa cala è famosa perché sembra di essere a Tahiti per l’acqua turchese (il fondale va dai 4 agli 8 metri). Bene la notte, di giorno si riempe di gente.

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Palermo-Montecarlo: sarà battaglia con oltre 40 barche e c’è anche il Principe Casiraghi con l’IMOCA 60 foil

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Scalda i motori la Palermo-Montecarlo che quest’anno festeggia la sua undicesima edizione e partirà dalle acque di Mondello il 21 agosto. Sono già 44 gli iscritti alla regata che come sempre segna anche un capitolo importante per la classifica del Campionato Italiano Offshore.

L’entry list provvisoria vede tra le barche più competitive Malizia II, l’IMOCA 60 con foil di Pierre Casiraghi, che difende i colori dello Yacht Club de Monaco. Malizia è la barca che ha partecipato, con skipper Sebastien Josse, al Vendée Globe 2017, ritirandosi per un’avaria alle appendici poco prima dell’Australia e, con Boris Herrmann, è tra i pre-iscritto al Globe 2020.

A dar battaglia a Malizia II, soprattutto per la vittoria in tempo reale, sarà soprattutto Lucky (Raichel-Puig 63′) dell’armatore americano Bryon Ehrhart, (in gara per il New York Yacht Club), che ha nel suo palmares la vittoria della Sydney Hobart 2011 (allora la barca si chiamava LOKI) e della Transatlantic Race del 2015. Tra gli scafi più grandi c’è da sottolineare anche la presenza del nuovissimo Grand Soleil 58 Leaps&Bounds, portato dell’esperto e plurititolato skipper Paolo Semeraro. Interessante anche la presenza di ben 5 Class 950, i piccoli open dai tratti oceanici che si daranno battaglia in tempo reale. Il Giornale della Vela sarà presente a bordo del Roodman 42 Cheyenne di Tommaso Oriani.

Il club organizzatore, il Circolo della Vela Sicilia, schiererà come da tradizioni il suo equipaggio, per l’occasione a bordo del Buena Vista, Maxi di 62′ di proprietà dei fratelli baresi Gigi e Beppe Pannarale. Progettato da Umberto Felci. Una grande estate quella del Circolo della Vela Sicilia, che come noto sarò protagonista della nuova sfida in Coppa America di Luna Rossa.

Info e tracking sulla regata QUI

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Caterina Banti, dalla lite con “Rufo” all’oro con Tita: il Nacra italiano sul tetto d’Europa

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A inizio anno era finita al centro di una brutta polemica per avere “tradito” il suo vecchio timoniere, Lorenzo “Rufo” Bressani, cambiando equipaggio, oggi la ritroviamo sul tetto d’Europa con Ruggero Tita (che arriva dai 49er) nella classe mista Nacra 17 foil: in meno di sei mesi la prodiera Caterina Banti è passata dal centro del ciclone a una medaglia d’oro. E va bene così, perché l’Italia oggi con questi due ragazzi porta a casa una medaglia pesante, di quelle che contano, in quella che sarà la prima vera disciplina foil alla prossima olimpiade di Tokyo. Era importante iniziare il quadriennio nel modo giusto e la coppia italiana nelle acque di Kiel ha dimostrato di essere già ben rodata, un passo avanti agli altri.

Il parziale dei due atleti italiani è di altissimo livello: 2-5-2-4-2-4-9-1-6-4-12-2-6-6-8, l’oro è vinto davanti agli spagnoli Echavarri-Pacheco e agli inglesi Saxton-Dabson. Ovvio, il livello di inizio quadriennio, soprattutto su una classe che ha introdotto una grossa novità come i foil, è ben lontano da quello che vedremo all’olimpiadi e Tita-Banti dovranno crescere molto per restare competitivi, ma partire un passo avanti agli altri è comunque meglio che inseguire. A proposito, Vittorio Bissaro è sceso in acqua per la prima volta in un appuntamento ufficiale con la nuova prodiera Maelle Frascari, dopo il saluto con Silvia Sicouri, centrando il decimo posto generale. Non sono le posizioni a cui è abituato Vittorio ma Bissaro comunque c’è, è nei 10, e ha quattro anni davanti per trovare la giusta alchimia con la Frascari e tornare vincente.

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Melges 24, festa italiana al mondiale di Helsinki: Maidollis e Taki 4 vittoria d’oro

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Maidollis. Foto Zerogradinord

Scusateci per il campanilismo: nel melges 24 non ce n’è per nessuno! Gli italiani tornano dal mondiale di Helsinki con due medaglie d’oro: una nella classifica generale con Maidollis di Carlo Fracassoli, l’altra nella classe Corinthian (non professionisti) con Taki 4 di Niccolò Bertola.

Taky 4. Foto Zerogradinord

Ad Helsinki è stato un mondiale duro, corso quasi sempre con vento forte sopra i 20 nodi e onda, con un programma impegnativo che ha visto lo svolgimento di ben 11 prove. Maidollis ha dominato, chiudendo addirittura con 31 punti di vantaggio sui secondi, gli americani di Monsoon, terzo l’equipaggio a stelle e strisce di Mikey. Quarta un’altra barca italiana, Altea, di Andrea Racchelli. Quinto posto generale per Taki 4, prima barca Corinthian in classifica e quindi titolo mondiale anche per loro.

Su Maidollis hanno regatato  Carlo Fracassoli, Enrico Fonda, Gian Luca Luca Perego, Stefano Lagi and Giovanni Ferrari.

Su Taki 4 hanno regatato:  Niccolò Bertola, Giacomo Fossati, Giovanni Bannetta, Marco Zammarchi, Matteo de Chiara. 

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La prima barca a vela intorno al mondo: la storia dello Spray

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Vi stiamo presentando, in ordine di tempo, quelle che secondo noi sono le 30 barche mitiche della storia della vela. Hanno fatto imprese, riuscite e non, hanno segnato la storia dello yachting moderno, hanno stupito perché hanno osato anticipare i tempi. Non le troverete mai esposte in un museo reale, noi ve le mostriamo, vi raccontiamo le loro incredibili storie e vi invitiamo a votare online la vostra preferita.

VOTA LA TUA PREFERITA QUI!

Oggi il viaggio nel nostro “museo virtuale” prosegue con la prima barca con cui un marinaio fece il giro del mondo in solitario, lo Spray di Joshua Slocum. 

Lo Spray nel porto di Providence

LO SPRAY, LA PRIMA BARCA A VELA INTORNO AL MONDO (1895-1898)
Lo Spray, la barca con la quale Slocum fece il primo giro del mondo in solitario della storia della vela – impiegò tre anni, due mesi e due giorni per circumnavigare il globo (1895-1898) – era uno sloop di 11,20 metri che lui stesso si costruì. La “nave” era in realtà uno sloop quasi centenario che in passato era stato adibito alla pesca delle ostriche e che giaceva su un prato di Fairhaven, nel Massachusetts, in stato di abbandono.

Poco più di un relitto che nessuna riparazione avrebbe rimesso in sesto: Slocum lo ricostruì seguendone il modello e le linee originali. La chiglia e le ordinate furono rifatte utilizzando il legno di quercia che abbondava nei dintorni. Per dare la piega voluta alle coste, Slocum allestì una camera a vapore di fortuna e «una marmitta a mo’ di caldaia». Per il fasciame e la coperta usò il legno di pino. Le sovrastrutture sul ponte erano due, una sul boccaporto principale, di circa 2 metri per 2, ad uso di cucinetta e l’altra, all’estrema poppa, per una tuga di 3 metri per 3,60 ad uso di cabina; entrambe sporgevano di circa un metro sopra il ponte.


Lo scafo, così terminato, misurava 11,20 metri di lunghezza fuori tutto per 4,32 di larghezza, con una stazza netta di 9 tonnellate. Dopo il calafataggio e la verniciatura, fu infine montato l’albero di maestra, ricavato da «uno splendido spruce del New Hampshire»
. Lo Spray era pronto per il varo. Era costato 553,62 dollari di puro materiale e 13 mesi di lavoro. Giunto a Rio de Janeiro, dopo diverse miglia percorse, Joshua Slocum decise di attrezzare lo Spray a yawl, ritenendo quest’armo più adatto per la navigazione in solitario.

LA FINE DELLO SPRAY E DI SLOCUM
All’una del mattino del 27 giugno 1898, lo Spray entrò nel porto di Newport, nel Rhode Island. Il capitano Slocum aveva navigato per 46mila miglia in tre anni, due mesi e due giorni. I giornali, tutti presi dalle notizie della guerra ispano-americana scoppiata due mesi prima, ne dettero soltanto qualche cenno. Alcuni arrivarono a dire che la circumnavigazione era un falso, benché Slocum fosse in grado di mostrare la licenza di navigazione con i timbri di tutti i porti che aveva toccato. Due giorni dopo l’arrivo a Newport, Slocum sentì il desiderio di tornare là da dove era partito, a Fairhaven.

Ormeggiò lo Spray «allo stesso palo di cedro piantato sulla riva per trattenerlo al momento del varo». Si sentiva vivo solo a bordo dello Spray, nell’immensità dell’oceano. Nel 1903 ricominciò a navigare da solo. Andava a svernare nelle Indie Occidentali e ogni anno tornava a terra sempre più cupo. Il 14 novembre 1909 partì di nuovo. E non fece più ritorno.

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Lo sai cosa significa? 5 parole al giorno per le crociere estive

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Inauguriamo la nostra nuova rubrica estiva, che vi farà compagnia per buona parte del mese d’agosto, e sarà dedicata a tutti quei velisti che si fanno delle domande ma non osano dirle ad alta voce. Ammettiamolo, quante volte vi siete chiesti il significato di un termine ma non avete avuto il coraggio di chiederlo a qualcuno per paura di essere presi in giro?

In barca non conoscere un oggetto o un termine è una cosa normale, nessuno nasce con le nozioni e la conoscenza già in testa. Approfittiamo dell’estate allora per fare un bel ripasso di termini e concetti nautici, cos’ da arrivare alle veleggiate autunnali pronti a dire la nostra.

Opera morta/Opera viva: la parte dell’imbarcazione che sta sopra la linea di galleggiamento; la parte dell’imbarcazione che sta sotto la linea di galleggiamento.

Pagliolo: pavimentazione costituita da tavole di legno che ricopre il fondo di un’imbarcazione

Pastecca: bozzello costituito da una sola carrucola apribile così che si possa introdurre una cima

Quadrato: zona della barca dove originariamente gli ufficiali consumavano il pranzo, nelle moderne imbarcazioni è la zona in cui si riunisce l’equipaggio, solitamente a centro barca

Sentina: la parte più bassa ed interna dello scafo in cui si raccolgono le acque di scolo

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Sarà un Fastnet da record e l’Italia fa il tifo per Ars Una

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Il menù della Rolex Fastnet Race, l’iconica prova d’altura che parte da Cowes (isola di Wight) il 6 agosto nel mitico canale chiamato Solent, costeggia le coste sud dell’Inghilterra e poi fa rotta sullo scoglio del Fastnet e sud dell’Irlanda prima di rientrare sulle coste inglesi, quest’anno è particolarmente ricco. Partiamo dai numeri: sono ben 384 le imbarcazioni iscritte e questo rappresenta un record per la regata.

Tra queste ci saranno numerosi Imoca 60 freschi di Vendée Globe, una nutrita flotta di Class 40, e i Volvo Ocean 65 che disputeranno la loro Leg Zero in vista della partenza ufficiale del giro del mondo in equipaggio da Alicante il 22 ottobre 2017. Se ciò non bastasse saranno presenti alcuni dei più performanti maxi al mondo, come il CQS di Ludde Ingvall. E l’Italia? Ci sarà anche una barca tricolore e in particolare si tratta del Mylius 15e25 Ars Una di Vittorio Biscarini che ha affrontato questa lunga trasferta per confrontarsi con il top dello yachting mondiale e correrà nella difficile classe IRC 1.

Tanti quindi gli spunti interessanti di questa regata, a cominciare dallo storico percorso di 607 miglia che negli anni ha alternato tempeste epiche ad edizioni difficili nel vento leggero. Al momento le previsioni sembrano delineare un inizio nel vento leggere lungo le coste inglesi ed una risalita nel mare d’Irlanda con un regine di ovest-sudovest intorno ai 20 nodi, quindi grandi velocità al traverso/lasco. Grande curiosità anche per l’antipasto di Volvo Ocean Race: saranno sette i team della Volvo presenti, la regata fa parte dell’articolato programma della Tappa zero che prevede dopo il Fastnet altre prove la più lunga delle quali sarà la St. Malò-Lisbona di 770 miglia.

www.rolexfastnetrace.com

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Tabarly e l’amore per il Pen Duick I: “Finché morte non vi separi”

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pen duick
Vi stiamo presentando, in ordine di tempo, quelle che secondo noi sono le 30 barche mitiche della storia della vela. Hanno fatto imprese, riuscite e non, hanno segnato la storia dello yachting moderno, hanno stupito perché hanno osato anticipare i tempi. Non le troverete mai esposte in un museo reale, noi ve le mostriamo, vi raccontiamo le loro incredibili storie e vi invitiamo a votare online la vostra preferita.

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Oggi vi parliamo del Pen Duick I, la barca-amore di quello che avete eletto l’anno scorso come più grande marinaio di tutti i tempi: Eric Tabarly.

IL PEN DUICK, L’AMORE DI TABARLY
Eric Tabarly nasce a Nantes il 24 luglio del 1931, con il 75% di sangue bretone nelle vene: (sarebbe dovuto venire alla luce a Quimper, dove il padre Guy era agente della General Motors, ma quest’ultimo pochi mesi prima della sua nascita si trasferisce a Blois, nel dipartimento della Loir-et-Cher). A soli sette anni, avviene l’incontro con il suo vero amore, quello che lo accompagnerà per tutta la vita e che, come vedremo, gli sopravviverà: il Pen Duick I, un “cotre franc” di 15,05 metri in legno disegnato dal grande William Fife III nel 1898. 

Nella pasqua del 1938 è in vacanza a Préfailles, in riva al mare, con papà, mamma Yvonne, la sorella Annick. Guy li porta a Basse-Indre, dove è in vendita la barca, che allora si chiamava Butterfly . Vecchia di quarant’anni, in male arnese, aveva già collezionato undici proprietari: costava troppo mantenerla ed era abbandonata in un canneto. “Con la mia logica di bambino avevo pensato: ma non è mica il posto giusto per una barca”, scrive il Bretone nel suo “Memorie del largo” (pubblicato da Mursia nel 1998). I Tabarly si innamorano dell’imbarcazione, la acquistano e la rinominano Pen Duick. Sono anni di occupazione tedesca, i Tabarly vengono sfollati.

Il Pen Duick, mentre Guy è mobilitato, viene disarmato e trasferito sul fiume Odet, dove viveva il marinaio che aiutava a bordo. Finisce la Seconda Guerra Mondiale, i genitori tornano a Blois, il giovane éric va in collegio: la barca rimane a marcire nel fango. Verso la fine degli anni ’40, è ormai un rottame e i Tabarly non hanno le risorse per operare un refitting radicale, così la mettono in vendita. Ma Eric, innamorato del suo Pen Duick, scoraggia l’unico potenziale acquirente. Nel 1952 si arruola nell’Aviazione Navale. Questo è anche l’anno che consolida l’amore tra lui e la barca: il padre vuole vendere il piombo della chiglia, il Bretone si oppone e gli propone di farsi carico delle spese di ristrutturazione con la prossima paga di militare. Guy s’intenerisce e regala al figlio il Pen Duick. “Sarai il tredicesimo proprietario. Questo forse ti porterà fortuna”, gli dice.

Nel ’55 éric è in Indocina come pilota d’aerei della Marina: ha bisogno di soldi per mantenere la sua amata, che decide di ristrutturare fasciandola in vetroresina, una scelta molto in anticipo sui tempi (la vtr invederà il mercato delle barche di serie intorno alla metà degli anni ’60). Ad aiutarlo nei lavori i succitati fratelli Costantini: “Ci pagherai quando potrai”, gli dicono. Il Bretone, uomo di parola, esaurirà il suo debito nel 1963. Da lì in poi, una lunga serie di progetti avveniristici, sempre con il nome di Pen Duick, dal secondo in poi. E i successi: due Ostar, tantissime regate oceaniche e record.

LA MORTE IN MARE
In tutti questi anni di regate intorno al mondo, Eric, che ha contribuito ad “allevare” generazioni di grandi velisti (Marc Pajot, Olivier de Kersauson, Philippe Poupon tra gli altri) non ha mai abbandonato il suo Pen Duick I. Nella notte tra il 12 e il 13 giugno stava navigando sulla sua amata una trentina di miglia al largo di Milford Haven (Galles): il Bretone era diretto in Scozia, dove avrebbe dovuto partecipare al centenario dei progetti di William Fife.

Assieme a lui un equipaggio poco esperto: il vento aumenta con raffiche fino a 30 nodi, il mare è formato. Tabarly sale sulla tuga per ammainare la randa e issare una vela più piccola: durante la manovra, la barca straorza, sbanda ed éric cade in mare, forse colpito dal picco della vela. Non aveva né il salvagente né una cintura di sicurezza: “A bordo non obbligo nessuno a portarla, perché per pretendere qualche cosa dagli altri bisogna anche dare il buon esempio” aveva scritto. “Invece io mi rifiuto di mettere la cintura di sicurezza. Il mio ragionamento è semplice: preferisco sparire in pochi minuti, invece di rovinarmi la vita a bordo per via della cintura di sicurezza”. E così è stato. Al buio e con il mare agitato, tutti i tentativi di recupero da parte dell’equipaggio sono vani. Non poteva che scomparire in mare, mentre era a bordo della sua amata il più grande marinaio della storia.

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Lo sai cosa significa? 5 termini nautici per zittire i saputelli

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Nuovo giorno d’estate e speriamo nuovo giorno di vacanza per voi che ci leggete. Mentre vi cullate in barca all’ombra del tendalino, proseguiamo il nostro ripasso sui termini nautici con un solo obiettivo: zittire il saputello che in banchina si vantava di padroneggiare perfettamente il glossario dei termini nautici burlandosi di noi.

Andiamo a vedere quindi altre cinque parole che inizialmente potrebbero disorientarci ma, niente panico, sono molto più semplici di quello che possiate immaginare.

Sgottare: eliminare l’acqua di bordo dalla sentina o da altre parti della barca mediante l’uso di una “sassola” o di un altro oggetto simile.

Sassola: oggetto cavo, atto a raccogliere l’acqua. Generalmente può essere una bottiglia tagliata, ma in commercio ne esistono di più ergonomici e progettati appositamente.

Tangone: asta in alluminio o carbonio che serve per murare una vela, un genoa alle andature portanti o uno spinnaker, ed esporla sopravvento.

Genoa: da non confondere con il fiocco, è la vela di prua che possiede una base che arriva a poppavia dell’albero

Fiocco: vela di prua che possiede una base che si ferma a prua dell’albero o al massimo in linea con esso

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Moitessier o mezza calzetta? Scopri che marinaio sei con il nostro quiz!

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quiz
Abbiamo selezionato 10 domande/quiz da marinaio a cui rispondere per capire se sei un vero uomo di mare di lungo corso. Rispondi al volo, d’impulso e poi guarda le risposte esatte
.
-Se hai riposto ad almeno 8 quiz nel modo giusto sei un ottimo marinaio
-Se hai risposto ad almeno 5 quiz nel modo giusto sei un discreto marinaio
-Se hai risposto ad almeno 3 quiz nel modo giusto sei un marinaio della domenica
Iniziamo!

RISPONDI SENZA STARE A TERGIVERSARE!

1. La barca tende all’orza, potrebbe essere perché:
A) la randa è troppo magra
B) il genoa ha la balumina troppo chiusa
C) la randa ha poco svergolamento

2. Il genoa avvolgibile ha la bugna posta più in alto, perché:
A) per ottimizzare il flusso alle andature portanti
B) per una riduzione omogenea del tessuto
C) per diminuire lo sbandamento con vento forte

3. Il triangolo di prua è:
A) la zona di coperta a pruavia dell’albero
B) la parte del piano velico che ha per lati lo strallo, l’albero
e la distanza tra albero e punto di mura
C) dove si issa la randa

4. Qual è il tipo di ancora migliore su fondali rocciosi?
A) Ammiragliato
B) Danforth
C) Bruce

5. Il canale 16 del VHF a quali comunicazioni è riservato?
A) chiamate al porto e alla capitaneria
B) chiamate e soccorso
C) dialogo tra barca e barca

6. Quando ricevi una chiamata Mayday cosa devi fare?
A) rilanci il Mayday in attesa di capire qual è la barca più vicina
B) chiedi la posizione alla barca in pericolo e fai rotta verso di lei
C) aspetti l’intervento dell’autorità marittima e ti mantieni in ascolto. Se te lo chiede ti dirigi verso la barca in difficoltà.

7. Se recuperi per mare un oggetto o uno scafo abbandonato hai diritto a…
A) un rimborso a discrezione del proprietario
B) una nota di merito da parte dell’autorità marittima
C) ad un rimborso pari ad un terzo del suo valore

8. Il tender quanto si può allontanare dalla barca madre senza avere l’obbligo di dotazioni di sicurezza a bordo?
A) 500 metri
B) massimo un miglio
C) non c’è limite, basta avere un VHF portatile

9. Se lanci il Mayday con il VHF, cosa significa?
A) grave pericolo per barca ed equipaggio. Aiuto immediato
B) richiedi contatto immediato con unità di soccorso per valutare la situazione
C) è un messaggio relativo alla sicurezza di navigazione

10. Cosa dice l’articolo 186 del codice della navigazione?
A) tutte le persone che si trovano a bordo sono soggette all’autorità del comandante
B) tutte le persone a bordo devono collaborare con il comandante
C) ogni persona a bordo è responsabile di se stessa

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Reliance: la barca più estrema mai costruita in Coppa America è del… 1903!

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Vi stiamo presentando, in ordine di tempo, quelle che secondo noi sono le 30 barche mitiche della storia della vela. Hanno fatto imprese, riuscite e non, hanno segnato la storia dello yachting moderno, hanno stupito perché hanno osato anticipare i tempi. Non le troverete mai esposte in un museo reale, noi ve le mostriamo, vi raccontiamo le loro incredibili storie e vi invitiamo a votare online la vostra preferita.

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La visita del nostro “museo virtuale” prosegue oggi con il Reliance, la barca più estrema che si sia mai vista in Coppa America. Ed era il 1903!

RELIANCE: LA STORIA DELLA BARCA DA COPPA PIU’ ESTREMA DEL MONDO!
Reliance, la barca che difese (con successo) l’America’s Cup nel 1903, è la barca più estrema che abbia mai navigato in Coppa: lunga 27,4 metri al galleggiamento e 43,5 fuori tutto, misurata dalla punta del bompresso alla fine del boma era lunga 60 metri! Nata dal genio di quello che è considerato il più grande progettista e inventore della vela moderna, Nathaniel Herreshoff (le sue barche difesero con successo la Coppa dal 1893 al 1920), quando era sbandata l’opera morta si trasformava in linea di galleggiamento rendendola molto più performante. Il povero challenger inglese Shamrock III di Sir Thomas Lipton perse le prime due regate e la terza si perse nella nebbia.


Sentite cosa scrivono, in dettaglio, gli amici di Nautica Report:

Reliance fu progettato per sfruttare al meglio il Seawanhaka ’90-foot’ rating rule e considerato come un “freak racing” adatto solo per l’uso in determinate condizioni. La Coppa America del 1903 fu l’ultima ad essere corsa secondo la questa regola. Il suo disegno approfittò di una scappatoia nella Seawanhaka ’90-foot’ rating rule, per produrre una regata di yacht con lunghe sporgenze ad ogni estremità in modo da aumentarne la velocità.

Per risparmiare peso, era completamente finito sotto ponte, con cornici a vista. È stata la prima barca da regata dotata di verricelli sottocoperta in un’epoca in cui i suoi concorrenti invocavano il man-power. Nonostante questo necessitava per la regata, a causa del suo grande piano velico, di un equipaggio di 64 unità.

Reliance fu costruita per un unico scopo: difendere con successo la Coppa America. Misurava 61 metri di lunghezza e la punta dell’albero era di 61 metri dall’acqua, l’altyezza di un edificio di 20 piani. Tutto era gigantesco, il tangone misurava 26 metri di lunghezza e la superficie velica era di 1.501 m2.

La sua carriera agonistica fu straordinariamente breve e imbattuta. Sconfisse il suo sfidante di Coppa America Sir Thomas Lipton su Shamrock III, progettato da William Fife, in tutte e tre le gare con un tale margine nella terza prova che Shamrock III fu costretta a ritirarsi.

Reliance, progettata da Nathanael Herreshoff, propose immediatamente la regola di valutazione universale di evitare tali navi estreme, pericolose e costose, che resero Reliance una concorrente inadeguata nelle gare successive. Ci fu molta speculazione sul fatto che la vittoria di Reliance fosse dovuta al design dello yacht o all’abilità del comando di Charlie Barr. Lipton propose dopo la gara di scambiare l’equipaggio delle due barche per decidere la questione ma l’offerta fu rifiutata dai proprietari di Reliance.

La sua carriera di grande successo fu di breve durata e fu venduta per la demolizione nel 1913 .

Caratteristiche
Yacht Club: New York Yacht Club
Nazione: Stati Uniti
Coppa America Anno (s): 1903
Tipo di carena: Cutter aurico
Designer (s): Nathanael Greene Herreshoff
Costruttore: Herreshoff Manufacturing Company
Lanciato: 1903
Proprietario (s): Cornelius Vanderbilt III Sindacato
Skipper (s): Charlie Barr
Marinai: 64
Vittorie notevoli: 1903 Coppa America
Destino: rottamazione 1913
Specificazioni
Dislocamento: 189 tonnellate
Lunghezza: LOA 201 ft 0 in (61.26 m)
LWL 90 ft 0 in (27.43 m)
Larghezza: 26 ft 0 in (7.92 m)
Pescaggio: 20 ft 0 in (6.10 m)
Superficie velica: 1.501 m 2 (16.160 m²)

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A lezione di inglese: 5 termini nautici di derivazione anglosassone

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I primi giorni di vela per tutti sono stati caratterizzati da figura fantozziane ogni qual volta sentivamo un nuovo termine nautico di cui non conoscevamo il significato. Onde evitare di assumere le movenze in barca del famoso ragioniere, continuiamo il nostro ripasso di termini nautici dai nomi un po’ astrusi. Questa volta nella nostra selezione inseriamo anche qualche termine di derivazione inglese, perché sempre più spesso queste parole vengono usate in barca per indicare attrezzatura o accessori.

Full Batten

La randa con le stecche lunghe dotata di carrelli e garrocci, una delle invenzioni più comode prestate dal mondo delle regate a quello della crociera.

Windage

Letteralmente possiamo tradurre questo termine con “resistenza” aerodinamica. A generare il windage sono quelle componenti della barca esposte al vento che frenano l’avanzamento.

Backstay

Altro non è che il paterazzo. Conoscere questa parola può essere utile quando consultiamo cataloghi in lingua inglese in cerca di attrezzatura.

Time on distance

Letteralmente “tempo sulla distanza”, è un’espressione che si usa nel mondo delle regate a compensi, o anche semplicemente quando calcoliamo il tempo che ci separa dalla linea di partenza con una data intensità di vento ed una data distanza.

Jibeset

Una particolare manovra ai giri di boa di una regata: consiste nell’issare lo spinnaker dopo avere cambiato mura con una strambata, issandolo quindi sulle mura opposte rispetto a quelle con le quali siamo arrivati in boa.

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Snark, la barca amore di Jack London che gli costò “mille parole al giorno”

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Oggi vi parliamo dell’amore/odio di uno dei più grandi scrittori dell’epoca contemporanea: la goletta Snark di Jack London. Leggete la sua curiosa storia…

jack londonLO SNARK E LE “MILLE PAROLE AL GIORNO” (1907)
Nel 1906, a trent’anni, Jack London è al culmine del successo. Da piccolo teppista proletario è diventato uno dei più grandi scrittori, giornalisti e fotografi dell’epoca. Ha già scritto i capolavori “Il richiamo della Foresta” e “Zanna Bianca”. Divorzia dalla scialba Bessie e sposa l’intrepida Charmian, che gli sarà compagna sino alla sua morte prematura.

E decide di realizzare i suoi due sogni, comprare un ranch e possedere uno yacht con cui fare il giro del mondo. Ma per potersi permettere questi due acquisti stravaganti si condanna ai lavori forzati, deve produrre mille parole al giorno, 365 giorni all’anno, per non andare in bancarotta. Così non si reca mai a seguire la costruzione dello Snark (la creatura immaginaria di “Caccia allo Snark” di Lewis Carroll).

jack londonDella costruzione della goletta, lunga 21,33 m (compreso il bompresso) e larga 4,57 m, se ne occupa uno zio della moglie, che si rivelerà un incompetente. Complice il terremoto che si abbatte su San Francisco, la barca viene pronta con sei mesi di ritardo, i costi salgono da 15.000 a 30.000 dollari. Nel 1907 Snark parte alla volta delle Hawaii.

Durante il viaggio inaugurale la barca si rivela un disastro e deve rimanere cinque mesi in cantiere prima di riprendere la crociera. London e la moglie ripartono, raggiungono le selvagge isole Marchesi, la Polinesia, le Samoa e le Figi, le Nuove Ebridi, le Salomone. Jack è lo skipper, ma non smette di scrivere le mille parole al giorno. Con qualsiasi mare, con ogni tempo.

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“Braccio in varea”, panico: quando i termini nautici ti mettono in difficoltà

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Proseguono le nostre vacanze in barca e, immaginando di guardare il magico mondo di bordo con gli occhi di un bambino, andiamo a conoscere altri termini nautici che ad un primo impatto potrebbero lasciarci perplessi. In barca infatti è impostante conoscere sempre le cose di cui si parla, per non essere un peso per i compagni di viaggio. Oggi partiremo da un termine che ci può servire in crociera e proseguiremo con diverse parole importanti per le manovre.

Waypoint: lo avremo sentito dire diverse volte. Letteralmente significa punto d’arrivo, è utilizzato negli strumenti di navigazione elettronica.

Varea: se sentite questo termine vuol dire che state per issare uno spinnaker: si tratta infatti dell’estremita del tangone su cui mureremo il braccio.

Carrello: la rotaia sulla quale si muove in pozzetto il punto di scotta della randa e in coperta quello del fiocco

Sventare: sottrarre una vela all’azione del vento, lascandola fino a vederla fileggiare

Trimmare: termine “italianizzato” dall’inglese, che indica l’atto di regolare una vela trovandone il giusto assetto.

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Mummy One, la “vecchietta” che continua a vincere

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Anche se hai una barca vecchia di vent’anni, puoi vincere i Campionati Italiani di Altura:
la dimostrazione è stata fornita dal Farr 30 Mummy One, matador assoluto del Nazionale ORC di Monfalcone di cui vi parliamo da pagina 103. Chiacchierando con l’armatore Alessio Querin ci siamo ricordati che questa diabolica vecchietta non è nuova a vittorie soprendenti: “Anche nel 2015 abbiamo vinto l’Italiano di Altura: nello stesso anno, sbarcando il motore, ci siamo portati a casa il titolo anche in quello di Minialtura. La chiave del successo, allora, ci fu offerta da un buco nel regolamento: scoprimmo che armando delle vele in semplice Dacron il guadagno, in termini di rating, superava di gran lunga la perdita di performance”.

Alessio Querin è nato a Monfalcone (Gorizia) il 16 gennaio del 1982. Gestice un laboratorio che si occupa di analisi e calcoli meccanici, Lab.Met. (che è anche lo sponsor della barca). Sul Farr 30 Mummy One, con i colori dello YC Hannibal ha vinto due Italiani di Altura (un bronzo mondiale) e uno di Minialtura.

VELE E RIGGING
Querin, nella vita, gestisce un laboratorio di analisi meccaniche, per cui il suo spirito da ottimizzatore ORC è frutto di una deformazione professionale: le performance della sua barca (varata nel 1997) sono la risultante di un attento calcolo “costi-benefici”: “Per l’Italiano 2017 ci siamo presentati con un gioco di vele in carbonio Olympic: per guadagnare sui compensi, abbiamo ridotto la superficie della randa (non allunata) di circa due metri quadri rispetto alla configurazione precedente (ora è di 32,53 mq totali), diminuendo la P (distanza tra penna e angolo di mura) e la E (distanza tra la faccia posteriore dell’albero e la parte anteriore del segno di stazza a fine boma). Per quanto riguarda i fiocchi da vento medio e leggero, abbiamo cercato di farli più grandi possibili, arrivando a più di 20 mq ciascuno. Il “pesante” è leggermente più piccolo. Gli spi sono frazionati (67,81 mq l’1 e 68,03 il 2), perché la barca è molto leggera di suo e alle portanti viaggia forte anche con tela ridotta. In occasione del Mondiale di Porto San Rocco abbiamo armato un A0 di 40,22 mq, murato sull’attacco dello strallo di prua”. Parlando di rigging, “L’albero e il tangone sono in carbonio, mentre il boma è rimasto quello di classe, in alluminio. Il sartiame è in tondino d’acciaio, per evitare qualsiasi tipo di allungamento, mentre il paterazzo regolabile è in tessile”.


QUELLA PRUA “SEGATA”…

Se guardate la foto sopra, noterete che la prua di Mummy One è stata “limata”: “Precisamente di quattro centimetri”, conferma Querin: “abbiamo portato la lunghezza fuoritutto da 9,43 metri a 9,39 in modo tale da poter rientrare in una classe di barche più piccole in occasione della Barcolana. Per il resto, lo scafo conserva le misure originali. Nel 2015 abbiamo modificato la pinna su progetto di Matteo Polli, aumentando i volumi sulla lama ma mantenendo il peso invariato. Per pure ragioni di stazza poi, abbiamo installato in sentina 180 chili di piombo. Anche sottocoperta non sono state operate sostanziali modifiche, se non la sosituzione dei paglioli originali con quelli in carbonio, sempre in ottica di risparmio pesi”.

L’IMPORTANZA DELL’EQUIPAGGIO
Non bastano le ottimizzazioni e il pedigree della barca (Bruce Farr con quello che allora si chiamava Mumm 30 fece un capolavoro), per vincere serve un equipaggio affiatato e al top: “Su Mummy One esiste uno ‘zoccolo duro’ di velisti che sono degli habitué, di volta in volta integrato con altri talenti”, spiega Querin. “Di solito regatano con noi Marco Furlan (prodiere e comandante), Federico Del Zompo nel ruolo di tailer, Ettore Mazza (prodiere), Stefano Cherin alla tattica e Jacopo Cunial o Karlo Hmeljak al timone. All’ultimo Italiano alla barra c’era però Francesco Bertone”.

Eugenio Ruocco

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Endurance, la barca a cui ha legato il nome mr. Shackleton,l’eroe dei mari

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Vi stiamo presentando, in ordine di tempo, quelle che secondo noi sono le 30 barche mitiche della storia della vela. Hanno fatto imprese, riuscite e non, hanno segnato la storia dello yachting moderno, hanno stupito perché hanno osato anticipare i tempi. Non le troverete mai esposte in un museo reale, noi ve le mostriamo, vi raccontiamo le loro incredibili storie e vi invitiamo a votare online la vostra preferita.

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Oggi vi raccontiamo la storia che ruota intorno all’Endurance. Una barca che è il simbolo di una delle imprese più eroiche che siano mai state compiute nella storia della navigazione

ENDURANCE (1914): LA BARCA SIMBOLO DELL’IMPRESA EROICA DI SHACKLETON
L’Endurance, rimasta stritolata tra i ghiacci del polo sud, è la barca simbolo dell’impresa che ha consegnato alla storia Ernest Shackleton nel 1914: una volta che l’esploratore capì che il veliero di 44 metri era ormai spacciato, lasciò lì i suoi uomini e si imbarcò su una scialuppa di 7 metri, tra i ghiacci, verso la Georgia del Sud, dove raggiunse i soccorsi. Con loro tornò dai suoi, salvandoli tutti. Eroe. Vi raccontiamo qua sotto tutta la storia del grande esploratore irlandese. 

LA STORIA DI SHACKLETON
Qualche tempo fa una rivista statunitense ha chiesto ai suoi lettori chi fosse, secondo loro, il più grande navigatore di tutti i tempi.
Forse vi aspettereste nomi del calibro di Joshua Slocum, Tabarly o al limite, se siete nostalgici, Cristoforo Colombo. E invece no. Per gli americani, il più grande è un esploratore, che si è rivelato, nel momento di vera difficoltà, anche un eccellente navigatore.

Stiamo parlando di Ernest Shackleton. Tre volte, invano, ha sfidato il Polo Sud. La sua nave è stata stritolata dai ghiacci. Lui non si è mai arreso: navigando per ottocento miglia su una scialuppa di sette metri in Antartide, ha salvato tutti i 27 membri del suo equipaggio. Scopriamo chi è il più grande esploratore di tutti i tempi

SCOPRIAMO CHI E’ IL PIU’ GRANDE ESPLORATORE DI TUTTI I TEMPI
“Datemi Scott a capo di una spedizione scientifica, Amundsen per un raid rapido ed efficace, ma se siete nelle avversità e non intravedete via d’uscita inginocchiatevi e pregate Dio che vi mandi Shackleton”
. A pronunciare queste parole fu Raymond Priestley, geologo, geografo ed esploratore britannico, anche presidente della Royal Geographical Society. Esagerato? Per niente. Ernest Shackleton è, ancora oggi, l’emblema dell’uomo capace di portare a termine l’impossibile.

endurance-stuck-in-the-iceDALLA CAMPAGNA IRLANDESE AL PACIFICO
Nato nel 1874 a Kilkea House, in Irlanda, Ernest Henry Shackleton a sedici anni si arruola su una nave della marina mercantile britannica, fuggendo dagli studi medici ai quali lo aveva indirizzato il padre. Dieci anni di viaggi tra l’Oceano Pacifico e l’Indiano fanno maturare in lui la convinzione che la marina mercantile non sia adeguata a soddisfare le sue ambizioni. La voglia di raggiungere fama e ricchezza lo spingono quindi a intraprendere la carriera di esploratore e per iniziare si aggrega alla spedizione antartica organizzata dalla Royal Geographical Society e guidata da Robert Falcon Scott, un altro mostro sacro dell’esplorazione dei poli.

Shackleton_nimrod_53MEGLIO UN ASINO VIVO CHE UN LEONE MORTO
L’obiettivo della spedizione è quello di raggiungere per primi il Polo Sud. Scott e Shackleton arrivano a circa 480 miglia dal Polo Sud prima di doversi arrendere. Si crea, tra i due, una frattura, secondo alcuni causata dalla sempre crescente popolarità di Ernest tra i membri della spedizione, e alla base della decisione di Scott di rimandare il collega in Inghilterra adducendo cause di salute. Passano quattro anni prima che Shackleton possa tornare al Polo Sud, questa volta a capo di una sua spedizione. A bordo del tre alberi Nimrod e grazie all’aiuto finanziario del governo australiano e e di quello neozelandese, nella primavera del 1907 raggiunge l’Isola di Ross, dove allestisce il campo base (ancora oggi visibile). Ufficialmente la spedizione si trova lì per analizzare la mineralogia dell’Antartide, ma il vero motivo è sempre lo stesso: arrivare per primi al Polo Sud. Shackleton si sente forte e preparato, grazie soprattutto all’esperienza acquisita nella spedizione precedente. Ma i preparativi si rivelano ancora una volta insufficienti. I membri della spedizione erano marinai e non esperti sciatori. La decisione di utilizzare i pony della manciuria è controproducente, tanto che devono essere progressivamente abbattuti. Nonostante tutto questo, i membri della spedizione riescono ad arrivare a soli 180 chilometri dal polo sud. Qui, Shackleton dimostra un grande spirito critico e una notevole capacità di valutare la situazione: anche se il traguardo è ormai a un passo, si rende conto che, avanzando ancora, il ritorno sarebbe impossibile. Decide di quindi di fare rientro al campo base. A chi gli ha chiesto il perché di quella decisione, ha sempre risposto: “Meglio un asino vivo che un leone morto”.

enduranceL’EPOPEA DELL’ENDURANCE
Per tre anni comunque Shackleton detiene il primato di avvicinamento al Polo Sud, che gli viene strappato quando prima Roald Amundsen e poi Scott lo raggiungono. Rimane un’unica conquista di prestigio: la traversata del continente antartico. è il 1° agosto 1914, alla vigilia dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, quando la tre alberi Endurance parte con a bordo ventotto uomini. Varata in Norvegia dai cantieri navali Framnaes Schipyard, si tratta di un veliero lungo 44 metri, dotato anche di un motore a singola elica sviluppante una potenza di circa 350 cavalli, che le consente una velocità media di 10 nodi, progettato espressamente per le esplorazioni artiche.

enduranceiceMa le condizioni della banchisa sono proibitive e particolarmente estese: il 19 gennaio l’Endurance rimane incastrata nel pack. “La nostra posizione al mattino del 19 era lat. 76°34’S, long. 31°30’O. Il tempo era buono, ma era impossibile avanzare. Durante la notte il ghiaccio aveva circondato la nave e dal ponte non era possibile vedere mare libero”, scrive Shackleton nel suo diario di bordo. Gli uomini trascorrono il lungo inverno australe a bordo della nave, ma il 27 ottobre l’Endurance viene abbandonata e un mese dopo è completamente distrutta dalla pressione del ghiaccio. Shackleton trasferisce l’equipaggio sulla banchisa in un accampamento d’emergenza chiamato “Ocean Camp” dove rimangono fino al 29 dicembre, quando si spostano, trasportando al traino tre scialuppe di salvataggio, su un lastrone di banchisa che chiamano “Patience (pazienza, in inglese) Camp”. Mai nome fu più azzeccato.

endurance-entering-iceA PIEDI TRA I GHIACCI
L’equipaggio è costretto ad attendere mesi prima di potersi muovere di nuovo. Nell’aprile 1916 gli uomini, notato che il ghiaccio inizia a frantumarsi, salgono a bordo delle scialuppe. Shackleton ha già in mente dove dirigere il gruppo. La destinazione migliore sarebbe l’Isola Desolation, circa 160 miglia a ovest. Le altre possibili destinazioni sono due isole più vicine, Elephant e Clarence. Una volta salpati, i membri dell’equipaggio si ritrovano costantemente bagnati e impossibilitati ad accendere il fuoco per scaldarsi o per sciogliere il ghiaccio (fondamentale per dissetarsi). Shackleton capisce di non avere altra scelta, deve raggiungere al più presto la terraferma: dopo sette giorni di navigazione tutte e tre le scialuppe arrivano all’isola Elephant, la cui superficie è quasi completamente ricoperta di neve e ghiaccio e battuta senza sosta da forti venti. Se già di per sé la capacità di Shackleton di mantenere in vita l’equipaggio fino a questo momento è stata notevole, è proprio ora che la spedizione entra nel mito.

Shackleton-Photo-19OTTOCENTO MIGLIA SU UNA SCIALUPPA DI SETTE METRI
Shackleton capisce infatti che è fondamentale ripartire in fretta, destinazione la Georgia del Sud, base di una flotta di baleniere. Una decisione che a prima vista appare folle: si tratta di affrontare più di 800 miglia in uno degli oceani più pericolosi del mondo a bordo della James Caird, una delle scialuppe lunghe sette metri salvate dalla distruzione dell’Endurance. Per preparare la barca viene rialzato il bordo libero, rinforzata la chiglia e costruito uno ponte improvvisato in legno e tessuto intriso d’olio e sangue di foca per renderlo impermeabile. Per stabilire la rotta, l’equipaggio ha a disposizione solo un cronometro e un sestante. Date le scarse speranze di successo, Shackleton decide di caricare viveri per solo quattro settimane: se non avrà raggiunto la destinazione entro quel lasso di tempo, probabilmente significherà che sono affondati e, peggio, persi nei mari australi.

Shackleton_nimrod_66 uomini
TUTTI IN SALVO!

E’ il 24 aprile 1916 quando Shackleton e i cinque uomini di equipaggio da lui scelti, lasciano l’isola Elephant. Affrontando onde gigantesche e raffiche di vento valutate intorno ai 100 km/h, dopo quindici giorni di navigazione giungono in vista della Georgia del Sud. Una tempesta li costringe a lottare nove ore per potersi avvicinare a terra ma, finalmente, il 10 maggio sbarcano. Le stazioni baleniere si trovano però sul versante opposto dell’isola. Di circumnavigarla non se ne parla, a causa dei venti dominanti e della costa rocciosa e piena di insidie. Anche l’entroterra non scherza però: l’area non è mai stata esplorata ed è composta da montagne ghiacciate. Shackleton, insieme a due membri dell’equipaggio, trasforma le scarpe in ramponi infilando dei chiodi nelle suole e senza altro equipaggiamento percorre, in sole 36 ore, gli oltre trenta chilometri che separano il loro punto di atterraggio dalla base di Stromness. Qui viene accolto dagli increduli balenieri, che forse pensano di avere davanti a loro dei fantasmi… Organizzare i soccorsi per i ventidue uomini di equipaggio rimasti sull’Isola di Elephant non è per niente facile: il Regno Unito è impegnato nella Prima Guerra Mondiale e Shackleton capisce che non arriverà alcun aiuto dalla patria. Cerca dunque un appoggio in Sud America. Il 30 agosto, quattro mesi dopo la partenza dall’Isola di Elephant, l’esploratore irlandese riesce a raggiungere tutti i ventidue naufraghi a bordo di una nave militare cilena.

shackletonSHACKLETON TORNA A CASA
A portare di diritto Shackleton nell’Olimpo degli esploratori non è solo l’incredibile traversata a vela sulla James Caird, ma il fatto che, nonostante le incredibili traversie, non perde nessun membro della spedizione. Non pago delle sue esperienze, Shackleton salpa per l’Antartide, ancora una volta, nel 1921 a bordo della nave Quest. Ormai è un mito e il giorno della partenza da Londra viene salutato da una folla festante. Ma nel porto di Grytvyken, nella Georgia del Sud (chiamatelo destino), ha un attacco cardiaco e muore. Mentre il suo corpo era in viaggio per l’Inghilterra, la moglie dà disposizioni affinché venga sepolto proprio nel cimitero di Grytvyken. La sua vera casa.

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