Il Golden Globe 2018 è partito. Non senza polemiche e “défaillance”, come quella di Patrick Phelipon che alla fine ha deciso di correre da solo, sulla rotta di Moitessier, deluso dall’organizzazione della regata (a proposito: Francesco Cappelletti non sarà in gara con i concorrenti, ma partirà due settimane dopo e verrà inserito nella speciale classifica “Carozzo”, dedicata a chi parte in ritardo e usa la strumentazione elettronica. Una classifica con un solo concorrente).
Noi, in redazione, ci siamo divisi: c’è chi si è entusiasmato di questa impresa “romantica” e chi invece non ha “digerito” la formula del giro del mondo in solitario senza scalo e senza strumenti, su barche a chiglia lunga costruite prima del 1988. Uno di questi “detrattori” è Mauro Giuffrè: a cui abbiamo chiesto di raccontarci le ragioni del suo “no” alla regata. Siete d’accordo con lui?
LA “COSA” GOLDEN GLOBE
Il Golden Globe è una “cosa” senza senso. “Cosa”, avete letto bene, perché non saprei come altro definirla. La Cosa non è una regata, perché non rispetta i canoni di sicurezza richiesti dalla Federazione della Vela Francese per essere definita come tale. La Cosa è stata ridefinita dagli organizzatori “Record”, ma non si capisce record di…Cosa. Per essere un record ci deve essere un tempo da battere, un riferimento da stabilire, un primato da raggiungere, ma le barche della Cosa è ovvio che non aspirino, volontariamente, a niente di tutto ciò.
Cos’è quindi il Golden Globe? Una veleggiata vintage intorno al mondo? Qualcuno mi ha detto che il Golden Globe è il modo per dimostrare che oggi esistono ancora i veri marinai. Ah, però, non ci avevo pensato. Quindi l’implicito di questa affermazione suggerirebbe che, per esempio, un François Gabart sia meno marinaio di uno dei partecipanti alla Cosa? Sarei curioso di fare una prova: mettere Gabart al timone di una delle barche anni ’70 e uno degli skipper della Cosa su un’IMOCA 60 con foil, canting keel, albero rotante etc etc. Credo che Gabart possa riuscire a “domare” una barca “vintage”, il contrario non è scontato, o quanto meno non è detto che tutti ne siamo in grado. Quindi chi è più marinaio di chi? Ma poi è necessario lanciare un’iniziativa simile per dimostrare o meno il grado di “marinai” dei velisti di oggi? Se ne sentiva proprio quest’esigenza?
Il Golden Globe è una Cosa giornalisticamente ai limiti dell’irraccontabile. Vi state chiedendo perché? La risposta è tremendamente semplice e logica. Non ci sono immagini, non ci sono documenti live che raccontano la regata, dato che è vietata la presenza di apparati tecnologici per la comunicazione, ci sarà un pit stop in Tasmania dove i concorrenti ancora in corsa consegneranno dei supporti rigorosamente vintage. Così poi potremo andare in camera oscura a sviluppare le foto e fare una proiezione di diapositive per gli abbonati del Giornale della Vela. Nell’attesa però abbiamo il lusso di osservare il tracking con delle barchette virtuali che navigano a 4 nodi tirando dei bordi quadri.
Starete pensando che il giornalista che sta scrivendo è un acido, senza cuore e sentimenti, tutto velocità e ottimizzazione del VMG, un uomo algido e senza sogni o immaginazione. Innanzi tutto ognuno ha i suoi sogni e le sue aspettative. Attenzione, non sto giudicando le ambizioni o le motivazioni personali degli skipper che stanno partecipando. Nei loro confronti il massimo rispetto, ciò che critico violentemente è l’impostazione anacronistica di un evento che poteva avere veramente un senso se reso al passo con i tempi, a partire da una comunicazione più efficace. La scarsa comunicazione poi è anche all’origine della cronica mancanza di budget di alcuni partecipanti, il nostro italiano Cappelletti su tutti. Risulta infatti veramente difficile capire come si possa convincere un’azienda a investire in un evento la cui produzione di contenuti multimediali rasenti lo zero.
Un capitolo, enorme, andrebbe aperto sul discorso sicurezza. Una flotta decisamente poco omogenea finirà per sgranarsi inevitabilmente e quando si troveranno nel profondo sud, dove i soccorsi non possono arrivare, questi distacchi enormi tra una barca e l’altra impediranno agli stessi skipper di potersi soccorrere tra di loro in caso di emergenza. So già cosa state pensando. “Ma nel ’68 era così e ce l’hanno fatta”. Il ’68 era 50 anni fa, eravamo in un’era pionieristica della navigazione oceanica di questo tipo e tanti elementi in termini di attrezzatura o valutazione del rischio non esistevano o erano semplicemente sconosciuti. 50 anni dopo siamo assolutamente consapevoli di cosa significhi attraversare i 40 Ruggenti e i 50 Urlanti. Farlo su barche lentissime, sovraccariche per le provviste di una navigazione che durerà dai 7 ai 9 mesi, e senza strumentazione se non il sestante e le carte nautiche è una cosa che presenta dei rischi obbiettivi difficili da ignorare.
Velisti romantici di tutto il mondo, io vi adoro e vi rispetto, ma per essere dei romantici non è necessario trasformarsi in dei fenomeni da baraccone correndo oltretutto dei rischi inutili per voi e i vostri cari. Il mare è bellissimo, ognuno lo vive come vuole, ma farlo al passo con i tempi è indice di buon senso.
Mauro Giuffrè
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